Oltremare AICS Magazine

Raffaele Salinari, sostenere le ong per sostenere l’Italia

Il portavoce del Cini racconta il ruolo delle organizzazioni non governative nella Fase2, le sfide comuni per sostenere la marginalità e le fasce più deboli in Italia e all’estero. Scontando le difficoltà sulle risorse limitate e il ritardo dei bandi.

Raffaele K. Salinari è il portavoce del Coordinamento Italiano delle ong Internazionali (Cini). Al suo interno ci sono importanti realtà come ActionAid, Save the Children, Vis, Cbm, Plan e Wwf. Oltremare lo ha intervistato per capire il ruolo delle Ong nella ripresa dell’Italia e le difficoltà dei tanti lavori della cooperazione, colpiti dalla crisi economica.

Tante ong hanno ricollocato parte del loro lavoro nel nostro Paese. Quali progetti in particolare sono stati attivati?

Le ong si sono immediatamente attivate per cercare di dare una risposta a livello nazionale, in coerenza con il loro mandato operativo, cioè attivandosi nei settori per cui erano già altamente competenti. Non si sono né sovrapposte ad altri soggetti né tantomeno hanno cavalcato l’emergenza con progetti di mera visibilità. Il Covid-19 ha un impatto diffuso: dalla povertà educativa alle differenze di accesso ai sistemi digitali, che colpisce tante bambine e bambini, i problemi psicologici legati al lungo confinamento in casa, l’aumento della violenza domestica. In tutti questi settori sono stati attivati progetti. Chi si occupava di sanità e medicina è andato a lavorare nelle strutture mediche, con tanti cooperanti in prima linea in ospedale. Io stesso sono un medico, ho fatto quello che dovevo. Ora, nella Fase 2 teniamo alta l’attenzione su questioni sociali che non devono passare in secondo piano. Volgiamo rafforzare la spina dorsale del welfare delle comunità di cui facciamo parte.

La situazione sembra preludere a un peggioramento delle condizioni sociali ed economiche nel nostro Paese. Crescerà il vostro ruolo a viso di un peggiorare delle condizioni socio-economiche degli italiani?

Noi per essere coerenti con il nostro mandato e con le richieste dei nostri finanziatori eravamo attivi in Italia già da prima della pandemia. Di fatto seguiamo le crisi cercando di gestirle, grazie alla nostra esperienza, in anticipo. Ci sono emergenze sociali molto palesi, con squilibri tra chi ha diritti e chi invece non ha accesso né ad assistenza, né a servizi base come l’istruzione. Tante persone non hanno un lavoro e non hanno risorse per fronteggiare la crisi, oppure hanno un lavoro in nero senza garanzie. In questo solco possiamo, abbiamo e avremo un ruolo importante

Come cambia il lavoro delle ong all’estero?

Bisogna concentrarsi sui problemi delle periferie del mondo in particolare dal punto di vista a dell’accesso ai servizi. Il lavoro è già ampiamente cambiato, cercando di prevedere quali saranno le nuove emergenze, ambientali e sociali, chiedendo flessibilità ai nostri donatori. Questo è un aspetto importante: non chiediamo risorse aggiuntive ma di poter modificare i progetti che stiamo già facendo. La politica e i donors però non stanno rispondendo alla velocità necessaria.

C’è chi chiede di ridurre ancora i finanziamenti alle ong per “aiutarci a casa nostra”

I finanziamenti non vanno a sostenere le ong, vanno a sostenere i beneficiari. Non chiediamo soldi per sostenere le nostre strutture, che pesano circa il 20% del totale dei costi. L’80% delle nostre risorse vanno a persone in difficoltà, quindi anche italiane e italiani. Se noi facciamo un paragone con i costi di gestione delle Nazioni Unite o con organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale, si vede subito il costo-beneficio.
Il Covid-19 ci ha insegnato che non se ne può uscire da soli. La solidarietà globale è l’unica risposta. Chi dice “vogliamo fare da soli” o “prima noi” non capisce che siamo tutti interconnessi. Aiutare qualcuno in mondi periferici o lontani vuol dire evidentemente dare una mano a noi stessi, si tratti di problemi ambientali che generano pandemie o la mancanza di democrazia che genera estremismi. Perché se si ritorna al passato, la seconda ondata pandemica sarà evidentemente esiziale.

Quando si parla di cooperazione allo sviluppo si parla anche del lavoro di professionisti. C’è preoccupazione tra coloro che lavorano nelle ong?

Queste sono le paure di tutti i lavoratori che temono per il proprio posto a causa della crisi. Nel nostro caso non è solo un lavoro per sbarcare il lunario. Chi lavora nella cooperazione fa della cooperazione la sua vita e dedica tutto il suo operato agli altri. Le nostre preoccupazioni non includono solo “ciò che sarà di me” ma anche gli impatti sulle comunità con cui lavoriamo.

Che cosa attendono le Ong?

Innanzitutto i famosi bandi per il finanziamento dei progetti di sviluppo da parte del ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale. Dobbiamo ricordare al ministro che nel nome del suo ministero è contenuto il tema della cooperazione: se ne deve occupare maggiormente. Oggi le ong si stanno giostrando ancora con i soldi del 2018. Nel 2019 e 2020 non sono stati fatti i bandi e non sappiamo nemmeno quali saranno le cifre che saranno disposte. Abbiamo scritto al Presidente del Consiglio poiché nessuno dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) o il viceministro sanno dirci nulla. Ci sono ong con 300 dipendenti e piccole ong che sono come imprese artigianali che difficilmente possono stare in apnea per due anni. Richiamo di far morire progetti e di perdere professionisti.

C’è preoccupazione anche per i fondi europei

Quello che noi chiediamo all’Europa è semplicemente il rispetto degli impegni presi a livello internazionale. Se la Commissione europea è il maggior donatore multilaterale questo significa che l’Europa ha ancora un ruolo da giocare a livello internazionale. Nei teatri internazionali dobbiamo mantenere una politica estera qualificante. L’Europa si è formata anche sulla Convenzione di Lomé: la convergenza tra stati è partita dalla una messa in comune di una politica estera di sviluppo nei confronti dell’Africa. Se non ripartiamo dalla cooperazione, nella fase di recovery, rimarremo un continente emarginato.