La XIX Legislatura, a maggioranza di destra, si è aperta molto simbolicamente con alcuni Decreti concernenti l’«ordine pubblico», uno in ambito nazionale, quello contro i rave party, e l’altro in ambito internazionale, il Decreto Legge n. 1/2023 recante: «Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori». Quest’ultimo dispositivo si incardina, prima ancora che in un orizzonte politico, dentro una temperie culturale in sintonia con i movimenti sovranisti globali che, determinati a smantellare l’idea del multilateralismo e, di conseguenza, l’universalismo dei Diritti Umani, attaccano le ONG in quanto soggetti agenti fattivamente sulla base delle Convenzioni internazionali in materia di aiuti umanitari.
Le ONG
E allora, possiamo dire che «uno spettro si aggira per l’Europa» o, come l’Olandese volante, minaccia il securitarismo, non la sicurezza, dei Paesi dell’alto Mediterraneo: è quello delle ONG. È un fantasma che fa paura a molti, sia ai governi di destra europei, incluso quello italiano, sia alle dittature di ogni tipo, da quella degli autocrati dell’Est sino alle teocrazie medio orientali di Iran ed Afghanistan. Un evidente filo nero lega, infatti, tra loro i fenomeni di crescente intolleranza verso queste organizzazioni e chi, come le donne iraniane ed afgane, incarna letteralmente gli stessi valori esponendo il proprio corpo al sacrifico della vita.
Torneremo a breve sul panorama internazionale, ma a questo punto è doveroso tracciare una brevissima storia di queste Organizzazioni Non Governative alcune delle quali, tra le altre cose, aventi lo status consultivo all’interno delle Nazioni Unite. Anche se le più vecchie vedono la fondazione dopo il primo conflitto mondiale, la maggior parte di esse nasce dopo il secondo, sulla spinta di due grandi correnti ideali: da una parte la pastorale dei poveri, incardinata nel Concilio Vaticano Secondo, l’altra sulla spinta del sostegno ai processi di decolonizzazione a partire dagli anni ’50 del secolo scorso. Come si vede, le motivazioni ideali, o ideologiche, sono comunque ancorate alla visione di un bene comune dei popoli, e la Carta delle Nazioni Unite è la loro cornice condivisa.
Poi, sul finire del secolo, le ideologie si scioglieranno, la teologia della liberazione diverrà quasi un’eresia, mentre il liberismo, dopo la caduta del muro di Berlino, cercherà di dominare la Storia e ricacciare nell’oscurità delle ingiustizie chi non riesce ad emergere sfruttando gli altri; ma le ONG rimangono fedeli ai loro valori di fondo, si evolvono cercando di affrontare le questioni emergenti: crisi ambientali, migrazioni forzate, diseguaglianze crescenti anche nei Paesi ricchi, sempre tenendo la barra dritta sulla loro stella polare: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Certo si può anche pensare, ed alcuni a sinistra lo fanno, che queste organizzazioni, eterodirette dal Nord, siano un fattore che impedisce ai popoli di prendere direttamente in mano il loro destino, che siano un fenomeno espressione della cattiva coscienza dell’Occidente. Chi avanza queste obiezioni evidentemente non segue la storia poiché è oggi il cosiddetto Sud globale a sviluppare, molto più del Nord ricco, la volontà di organizzarsi dal basso e far valere i propri diritti anche attraverso queste forme non governative.
E dunque l’attacco frontale al mondo delle ONG, quali organizzazioni della società civile che, a migliaia ed in tutto il mondo, coinvolgono milioni di attivisti sui temi che vanno dalla difesa dell’ambiente a quella del diritto a migrare, dalla necessità di una informazione trasparente alla salvaguardia della salute nei Paesi impoveriti, è allora la cifra costitutiva delle politiche che vedono nella libera espressione organizzata dei cittadini la minaccia più radicale alla loro gestione del potere. Come nella nota pratica della propaganda che teorizza la «merda nel ventilatore», ecco allora che una sigla che include un ambito vastissimo di entità viene fatta coincidere tout court con alcuni casi di corruzione, come il recente Quatargate, o utilizzata per reprimere ulteriormente le donne afgane che da qualche tempo non possono più lavorare per le tante ONG che, localmente, cercano ancora di sostenere i processi di autodeterminazione di quel popolo.
Queste coincidenze temporali tra scenari apparentemente diversi e lontani tra loro, dovrebbero allora far riflettere chi ha a cuore la democrazia come forma di governo che si nutre soprattutto della partecipazione e dell’impegno civile, in quanto le ONG, in tutto il mondo, ne sono l’espressione più fondante, poiché rappresentano una forma di autoorganizzazione che liberamente viene scelta dai cittadini per esprimere la loro necessità di cambiamento dal basso. La memoria spesso è breve, ma il Forum Sociale Mondiale, che per vent’anni ha organizzato a livello globale le resistenze popolari al modello neo liberista, era composto quasi esclusivamente da ONG.
Abbiamo assistito negli ultimi tempi ad attacchi rabbiosi, forsennati, al mondo del non governativo, attacchi di chi sa bene che minare con calunnie e false analogie la credibilità di tante organizzazioni del Terzo Settore, significa rimettere in discussione ambiti di critica costruttiva ad un sistema che produce iniquità crescenti, in Europa come nel resto del mondo. Il falso sillogismo: una ONG è divenuta strumento di truffa, dunque tutte le ONG lo sono potenzialmente, è talmente rozzo che solo una colpevole e dunque ancora più preoccupante mancanza di attenzione da parte dell’informazione corretta può lasciarlo circolare senza interrogare complessivamente i soggetti ed i fatti.
Basterebbe invece, con un minimo di onestà intellettuale, ascoltare la voce di quanti, ogni giorno, ricevono dalle ONG che lavorano al loro fianco un sostegno concreto ai diritti fondamentali nei campi profughi spazzati dal gelo o dal caldo, nelle baraccopoli africane senza acqua, nelle crisi alimentari che colpiscono milioni di persone o, semplicemente, andare ad interrogare una bambina di una scuola rurale in America latina che ha ricevuto supporto ai suoi studi da un donatore, magari italiano, per capire il valore universale di queste organizzazioni.
La maggior parte delle ONG, infatti, si finanzia con fondi che derivano direttamente dai cittadini e questo significa essere responsabili verso i donatori dell’utilizzo stesso di ciò che si riceve. Anche nel caso dei finanziamenti pubblici il livello di controllo è elevatissimo, cosa che ha permesso di smascherare la corruzione di altissimi livelli sin nel cuore delle istituzioni comunitarie. E dunque, infangare le ONG nel loro complesso, significa disprezzare e svalutare il valore di azioni a volte semplici, ma concrete e di altissima valenza per l’impegno civile che esprimono nella convinzione che tutti abbiano gli stessi, inalienabili, diritti.
Le ONG e la sfida del multilateralismo
Da questa sfida globale deve dunque nascere la consapevolezza che la posta in gioco è molto più alta del destino delle ONG, poiché lo spirito del Decreto contro i salvataggi in mare va ricercato nella volontà politica, da parte delle destre europee e non solo, di smantellare le Convenzioni internazionalmente accettate e che permettono ancora di riconoscersi tutti, con pari dignità e diritti, all’interno della comunità umana. Non a caso la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, chiarisce esplicitamente a cosa servono questi Diritti e quali strumenti mettere in atto per sostanziarli: «Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione; Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni; Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà; Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali; Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni…».
Il testo della Dichiarazione è dunque estremamente chiaro nel rilevare il nesso tra Dignità, Diritti e Democrazia intesa come processo partecipativo ed inclusivo per tutta la comunità umana. Altro punto centrale della Dichiarazione è quello della indivisibilità dei Diritti, che non possono essere spacchettati o utilizzati a la carte, pena il decadimento di tutti. Forse, per dare una immagine pittoresca ma evocativa, di questa situazione, vale la pena ricordare la favola popolare di Pattini d’argento.
Pattini d’argento
La fiaba narra di una bambina che, tornando da una pattinata sul ghiaccio, nota un forellino nella diga che protegge il suo paese. Capendo il rischio potenziale della cosa tappa la falla col suo dito sino a che non arriva qualcuno che la solleva dall’impegno e ripara la diga a beneficio della sicurezza di tutti. L’esempio è estremamente calzante alla nostra situazione: i Diritti Internazionali sono una diga contro le ingiustizie e una volta praticato un foro in quella diga, tutto rischia di crollare travolgendo ciò che dovrebbe invece essere salvaguardato. Fuori di metafora, possiamo dire che oggi, per le destre globali, l’attacco ai Diritti Umani legati alla libera circolazione degli individui, e a quelli che delineano il vasto ma definito, campo dell’Aiuto Umanitario, sono la manomissione che potrebbe far crollare i presidi internazionali messi in essere dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale, e che le ONG, tra le altre organizzazioni, implementano concretamente ogni giorno.
Salvataggi e biopolitica
In questo quadro, evidentemente, il corpo migrante, con tutti i suoi significati e significanti simbolici, diventa la massima espressione di una biopolitica che, come suo scopo ultimo, pretende di imporre delle linee di frattura all’interno del genere umano. Il punto d’intersezione tra il trattamento dei corpi migranti e l’impostazione del biodominio è chiarissimo se riprendiamo la definizione stessa che Foucault dava di «potere sovrano», nella sua radicale novità rispetto alle condizioni in cui questo veniva esercitato sino al termine della guerra fredda. Prima della caduta del muro, infatti, il «potere sovrano» consisteva nel «dare la morte e concedere la vita»; in questi tempi scanditi dal biopotere, la sua definizione è invece cambiata in «sostenere la vita e lasciar morire». A questo punto appare chiaro il collegamento tra gli annunci programmatici delle destre sovraniste sul divieto dei salvataggi plurimi in mare e questa definizione di «potere».
Lo sguardo dell’uomo sul Mondo, diceva Walter Benjamin, riflette la forma dei rapporti di produzione, e i rapporti di produzione, elabora Foucault, sono oggi governati dalla biopolitica, cioè dalla riduzione della vita al suo valore di scambio, di merce. In questa situazione è facile capire l’impossibilità per le attuali politiche europee di vedere i fenomeni migratori nella loro dimensione umana, empatica, la sola che darebbe luogo a pratiche di accoglienza radicalmente diverse dalle attuali. Eccitati ed accecati dall’idea di perdere i privilegi accumulati in secoli di dominio sul resto del mondo «in via di sviluppo», il confuso demos europeo, ciò che resta della piccola borghesia, ma anche il proletariato espulso dal ciclo produttivo o supersfruttato, si rivolge così alle destre populiste che promettono di «fermare i migranti sul bagnasciuga», come nel secolo scorso già affermava il fascismo. Ma l’eccitazione superficiale, agitata e servita calda dai vari demagoghi continentali, nasconde nella sua profondità una altrettanto grande depressione, generata dall’oscura consapevolezza che ciò che oggi capita ai migranti, domani, ma forse già oggi, potrebbe accadere a chi ancora crede di cavarsela con i respingimenti o i divieti di salvataggio multipli.
Perché se è vero che la Storia non insegna nulla, è altrettanto vero che l’anima dei popoli non dimentica, che i traumi personali e collettivi vissuti dai singoli e da intere popolazioni, restano nel profondo e riemergono costantemente a ricordare ciò che si è vissuto. Ma per far sì che questa memoria collettiva, fatta di quando l’Europa era a sua volta un continente di migranti, di bombardati, di sottoposti a feroci dittature, di razzismi verso gli italiani o gli irlandesi, di guerre civili a sfondo religioso, ma anche di resistenza, di affermazione dei diritti umani, di abbattimenti di frontiere, di dialogo, di aiuto ai popoli che uscivano dal colonialismo, possa riemergere come forma della politica, e prima ancora della consapevolezza, bisogna tornare a vedere con gli occhi ciò che abbiamo sotto gli occhi, cambiare lo sguardo sulle cose.
Non è forse l’occultamento dei corpi migranti uno dei dispositivi fondanti di questa fase biopolitica? Non è la riduzione dei singoli individui ed individue, di bambini e bambine con nomi, storie, vite, vissuti, diversi, nel grande calderone dei migranti, morti anche nella ridda dei numeri e delle statistiche? Ecco perché i gruppi, le associazioni, le ONG che si occupano di queste persone, cercano in ogni modo di renderle visibili, di illuminare queste nude vite per sottrarle alla dittatura della soppressione, farne dei protagonisti della loro stessa esistenza, e non solo delle pratiche di ordine pubblico. Da questo punto di vista la tragedia di Cutro, con 180 morti, molti bambini, è una epitome chiarissima di come viene concepito il trattamento differenziale tra chi deve evidentemente pagare con la vita la ricerca di un destino migliore e quanti invece saranno, forse, graziati dal biopotere poiché servono all’esigenza del lavoro nelle nazioni cosiddette avanzate, Italia inclusa.
Rovesciando la logica del respingimento, delle barriere, dell’esternalizzazione dei confini spinati, le associazioni che si impegnano nella gestione dei migranti in mare, ma anche sulle banchine siciliane o greche, restituiscono come prima priorità a queste persone il loro volto, la loro identità unica ed irripetibile, non solo la speranza che il dolore vissuto sia servito a qualcosa per le loro esistenze, ma che serva anche a chi li accoglie per cambiare la sua prospettiva sull’ordine delle cose. Perché siamo noi, quelli pronti a gettare al vento secoli di democrazia e convivenza, ad aver bisogno della forza di queste vite almeno tanto quanto loro hanno bisogno di noi.
La politica è prima di tutto uno sguardo. Dallo sguardo attento nasce il riguardo, il guardare due volte, e di conseguenza il rispetto che ha, non a caso, la stessa radice. Riaccendere lo sguardo sui migranti, farne la questione politica fondamentale per la re-visione degli assetti europei, della rinascita di un pensiero di sinistra che ha archiviato l’internazionalismo panafricano di Lumumba e Nkuma, la disobbedienza civile di Ghandi, il socialismo di Sankara, che si disinteressa, come fossero questioni marginali, delle politiche di cooperazione allo sviluppo. Il cambiamento parte da un cambio di paradigma per quello che concerne le priorità da affrontare, che non sono più solo quelle della contraddizione capitale lavoro, ma quelle tra uomo e ambiente e tra generi, genti e generazioni.
Da come si riorganizzeranno le forze democratiche attorno alla gestione e soprattutto alla soluzione delle emergenze migratorie, legate alle guerre, ai disastri ambientali, ma anche ad un modello di produzione internazionale che ha sempre più necessità di morti e destabilizzazione per lucrare sull’unico giacimento inesauribile, la paura da parte di una minoranza sempre più esigua perdere ciò che di materiale ha acquisito, si misurerà la possibilità che esista un futuro per tutti e non la pura sopravvivenza di una parte minoritaria sulla maggioranza del vivente.
I minori
All’interno di questo quadro un ruolo di primo piano rivestono le violazioni dei Diritti dei Minori che, non caso, fanno parte di una Convenzione internazionale ratificata anche dal nostro Paese, e che è forse quella più minacciata dalle nuove regole di questa gestione sub specie ordine pubblico delle migrazioni via mare, ma non solo, dato che anche via terra, seppur con meno evidenza mediatica, si applicano le stesse logiche.
Nel caso italiano è emblematica la gestione dei minori stranieri non accompagnati che sono trattenuti, ad esempio, nel centro di Lampedusa. Le denunce che riportiamo qui di seguito vengono da una relazione circostanziata, che alcune ONG hanno consegnato al Parlamento nella scorsa Legislatura ma che, da allora, non sono cambiate. La prima questione denunciata è quella delle condizioni materiali di vita cui i minori migranti sono sottoposti. Il sovraffollamento dei centri di accoglienza è noto e questi minori sono in pratica detenuti perché non possono uscire dalle strutture (quando un minore rifugiato non può essere privato della libertà) e comunque privi di uno status giuridico definito poiché non vi è chiarezza su questo, dato il continuo susseguirsi di norme anche in violazione della Convenzione ONU sui Diritti dei Minori. Molti ragazzini sono inoltre di fatto privati della libertà personale in palese violazione dell’art. 13 della Costituzione, senza alcun provvedimento scritto né alcuna convalida giudiziaria.
La situazione personale di ognuno di loro è di estrema mortificazione: nessuno dei ragazzi comprende il motivo di questa detenzione; si colpevolizzano, perché credono di avere commesso un reato e non sanno qual è il loro destino. Chiedono insistentemente di dire loro quando usciranno e dove andranno. È chiaro che in queste condizioni si manifestino sempre più frequentemente casi di autolesionismo.
È di tutta evidenza come l’entità delle presenze dei minori nei centri non possa giustificare il ritardo e la parziale applicazione della procedura di accoglienza prevista dal nostro ordinamento a protezione dei ragazzi. La difficoltà per l’Italia di reperire un numero corrispondente di posti in strutture di accoglienza adeguate non è in dubbio; sono molti, infatti, i Comuni che hanno risposto all’appello a dare la propria disponibilità ad accogliere i minori. Ciò che però impedisce una fluida procedura di trasferimento e accoglienza è l’insicurezza che i Comuni hanno di vedersi sostenuti nelle spese cui dovranno incorrere.
Quel che resta del Diritto Internazionale
Le Convenzioni che il Decreto contro le ONG rimette in discussione sono note, prima fra tutte, lo ripetiamo, quella UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare) che impone al comandate di una nave, quale che sia, il soccorso in mare. È allora chiaro, o lo dovrebbe essere, a chi ha ancora occhi per vedere l’orizzonte più vasto, che la catena delle Convenzioni internazionali, incluse quelle che concernono l’ambiente, i diritti del lavoro, gli standard minimi di salute e di istruzione, la parità di genere, e via enumerando, è forte quanto il più debole dei suoi anelli, in questo caso non solo la violazione delle Convenzioni del soccorso in mare ma, di conseguenza, lo abbiamo visto, anche quella di protezione dell’infanzia. Immaginiamo allora per un momento una possibile applicazione di questo Decreto: vediamo un barcone di naufraghi in difficoltà e non ci fermiamo a soccorrerli, sapendo che andranno incontro a morte certa.
Questi morti, che ci saranno, che ci sono già adesso, chi ha voluto la norma se li porterà sempre addosso, come un demone che a giorni non li farà respirare, che li priverà, a momenti, della capacità di provare piacere per le vittorie. Ecco che allora, in questi casi, è bene ripeterlo, il gesto del salvataggio diviene politica, scelta compromissoria, alterità: il salvataggio non è mai a senso unico, ma è reciproco. Questo senso profondo di appartenere alla stessa vita, di essere in vita insieme è la radice di una solidarietà che non è pietosa ma empatica, segno di una politica di accoglienza verso altri se stessi e non di semplici corpi da parcheggiare in attesa che vadano altrove. In questi momenti, per chi si immedesima nel gesto del soccorso, la distanza tra esseri umani si annulla. Non esistono più il migrante ed il soccorritore, l’ordine simbolico e biopolitico viene annullato: si ricompone l’umanità divisa.
Conclusioni
Vengono allora in mente le parole eversive di Bertold Brecht: «Il disordine ha già salvato la vita a migliaia di individui. In guerra basta spesso la più piccola deviazione da un ordine per portare in salvo la pelle». In queste guerre all’umanità, senza confini né limiti temporali e geografici, per trovare nuove soluzioni occorre farsi carico del superamento della distinzione tra chi salva e chi è salvato, dato che nascere da una o dall’altra è solo questione di Fortuna, e questa antica divinità non deve essere oggi più che mai contrapposta allo Spirito eterno ed altrettanto immortale che anima i Diritti Umani.
Articolo di Raffaele K. Salinari
Pubblicato nella Rivista Critica Marxista
2023 gennaio – aprile