«Processo di Roma», una operazione securitaria

Verso l’esternalizzazione ulteriore delle frontiere nazionali, per posizionare ormai il controllo delle migrazioni non solo a livello delle coste nord africane, ma ben più a sud.

La Conferenza Internazionale su sviluppo e migrazione, ospitata dal governo italiano, sembra avere attivato una delle componenti di quel «Piano Mattei» sino ad ora evocato a più rirese dalla presidente del Consiglio ma ancora privo di contenuti concreti. Il cosiddetto «processo di Roma», infatti, come è stato chiamato il risultato della Conferenza, ha deliberato un nuovo approccio al problema delle migrazioni dal continente africano attraverso una forma rafforzata di cooperazione tra forze di polizia.

IL SEGNALE è estremamente chiaro, e si può riassumenre in una ulteriore esternalizzazione delle frontiere nazionali, che oramai dovranno posizionare il controllo delle migrazioni non solo a livello delle coste nord africane, ma ben più a sud. Qui dunque si riscrive attraverso la sensibilità securitaria propria alle destre, la portante stessa di cooperazione allo sviluppo non più posizionata in prevalenza sull’asse dei diritti umani, della salute , dell’educazione, della lotta alla povertà ed ai cambiamenti climatici, in breve sul sostegno agli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, non a caso mai realmente nominati durante la Conferenza, quanto orientata verso il governo degli effetti che il tralasciare tutto questo comporta, cioè le migrazioni. Cooperare con Paesi la cui tenuta democratica è perlomeno dubbia, quali l’attuale Tunisia o la Libia, per non parlare della variegata compagine degli Stati a sud del Sahara, attivando un invio di fondi che, sempre a detta della Presidente del Consiglio, dovranno essere spesi dai partner locali come più lo riterranno opportuno, non sembra infatti un buon viatico per quel piano di appoggio allo sviluppo del continente africano che avrebbe bisogno di sostegni ai processi democratici in primis e non del rafforzamento di regimi ben conosciuti per le loro insensibilità ai diritti umani.

A QUESTO PROPOSITO la Conferenza ha registrato il paradosso del Presidente tunisino che si è chiesto platealmente a chi andassero tutte le armi che l’Occidente invia nel suo continente, quasi una lezione di geopolitica nella quale risuonava il fantasma di quel passato coloniale dal quale sembra trarre ispirazione , mutatis mutandis, il governo italiano attuale. A questo proposito il Presidente Saied, professore di diritto costituzionale che ha sospeso la Costituzione approvata dal suo popolo, ha voluto ricordare che gli attuali movimenti migratori da Sud a Nord altro non sono che le conseguenze del periodo coloniale, perdipiù rivendicando la primogenitura dell’iniziativa «romana» ringraziando il governo italiano di avere accolto la sua proposta.

Poste dunque queste premesse, ora si tratta di capire quali e quanti fondi verranno messi a disposizione della nuova cooperazione securitaria allo sviluppo, chi la gestirà e quali saranno i criteri di scelta dei partner nonché gli indicatori di efficacia.

BASTERÀ CHE L’HOT SPOT di Lampedusa resti vuoto? Che nessun essere umano cerchi un futuro migliore attraversando il Mare Nostrum? Ed i fondi per gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile promessi dall’Italia in sede internazionale, pari allo 0,7 per cento del PIL, oggi a meno del 3 per cento, come chiede la Campagna070, saranno infine erogati? E ancora, quale sarà il ruolo delle Ong che da sempre agiscono con i popoli africani nell’idea della pari dignità e dell’ascolto reciproco? Saranno ascoltate o ancora saranno considerate parte del problema e non della soluzione?

Come si vede le questioni che questa Conferenza lascia aperte sono fondamentali per capire verso dove si vuole realmente andare. Vigilanza dunque poiché sono questioni che riguardano tutti noi: si scrive cooperazione si legge democrazia.

Articolo di Raffaele K Salinari, Portavoce CINI

Pubblicato su il Manifesto il 25/7/2023